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La Giustizia italiana riconosce il principio U=U e assolve un uomo con HIV da sei anni sotto inchiesta

Un arresto, un’accusa di tentate lesioni gravissime, una persona che rimane sotto indagine per sei anni fino al processo che, inevitabilmente, si conclude con un’assoluzione: è il calvario giudiziario toccato a un uomo con HIV abruzzese accusato di aver avuto rapporti non protetti con una donna di Bari.

A Carabinieri e Magistrati del capoluogo pugliese sono occorsi sei anni della vita di una persona innocente per accertare quello che la LILA e altre associazioni avevano chiesto fin da subito di accertare: all’epoca dei fatti l’uomo era in terapia antiretrovirale, aveva una carica virale soppressa e, dunque, non poteva trasmettere il virus, nemmeno in caso di rapporti sessuali non protetti (U=U).

Sarebbero bastati pochi, semplici riscontri per archiviare immediatamente le accuse ma la frenesia dettata dalla caccia all’untore che si scatena puntualmente, da anni, in troppe caserme, commissariati, uffici giudiziari, seguita dall’inevitabile ricaduta mediatica, non ha, evidentemente, permesso di seguire un corretto iter nella ricostruzione dei fatti. Tuttavia, per la prima volta, l’evidenza scientifica U=U è assunta dalla Giustizia Italiana e considerata motivo di assoluzione costituendo un importate precedente giurisprudenziale.

“Pur nel rammarico del dramma giudiziario vissuto dal signore, al quale esprimiamo tutta la nostra solidarietà – dice Giusi Giupponi, Presidente Nazionale LILA – salutiamo con sollievo la prima sentenza italiana che assolve un imputato in base all’evidenza scientifica U=U e torniamo a sollecitare un rapido aggiornamento in materia di tutti gli attori istituzionali, altrimenti si rischia di continuare a perseguire persone innocenti”.

Partiamo dalla fine di questa storia: lo scorso 23 febbraio il Tribunale di Bari ha assolto con formula piena un 56enne con HIV dall’accusa di tentate lesioni personali gravissime per aver avuto rapporti sessuali non protetti con una donna. “Il fatto non sussiste” hanno decretato i giudici, prendendo atto della condizione clinica dell’uomo, già allora in piena soppressione virologica e dunque U=U, ossia Undetectable equals Untrasmittable: questa formula significa che, se la carica virale non è più rilevabile (grazie al successo delle terapie ART), l’HIV non è trasmissibile per via sessuale. È questa un’evidenza scientifica nota da oltre un decennio, riconosciuta da tutte le autorità e le agenzie sanitarie del mondo, comprese quelle italiane, basata su studi vastissimi, solidissimi, durati anni.

Eppure, il mondo giudiziario italiano, le forze dell’ordine che lo supportano, gran parte dei media e, perfino parte della comunità medica, hanno faticato molto, finora, a recepire questa verità scientifica influenzando, inevitabilmente, il dibattito pubblico e la percezione collettiva e personale dei fatti.

La vicenda giudiziaria in questione presenta fin dall’inizio risvolti molti discutibili. I due partner si incontrano a Bari nel marzo 2018, trascorrono la notte insieme, fanno sesso non protetto; il giorno successivo l’uomo dice alla signora di avere l’HIV. La donna, comprensibilmente nel panico (chi, tra i non addetti ai lavori, ha mai sentito parlare di U=U?), si reca al Policlinico di Bari, parla, probabilmente, con i Carabinieri del posto e spiega i fatti. Intanto, viene sottoposta alla PeP, la profilassi Post-Esposizione che evita di contrarre l’HIV se si sono avuti rapporti a rischio e, forse rassicurata, decide di non denunciare il partner. I controlli successivi ne confermeranno la negatività all’HIV. I Carabinieri però, attivano, comunque, la Procura di Bari che emette un ordine di custodia cautelare per l’ipotesi di lesioni personali gravissime, reato procedibile d’ufficio. A tempo di record, gli investigatori risalgono alle generalità dell’uomo attraverso le strutture sanitarie che lo avevano in cura lo fermano e lo pongono agli arresti domiciliari non appena questi scende dal treno che lo sta riportando a casa. Non sappiamo cosa sia accaduto in sede di interrogatorio di garanzia o di udienza preliminare e come mai non si sia deciso, già in tali occasioni, di non procedere. Fatto sta che si arriva al rinvio a giudizio e il processo ha inizio nel 2022. Pochi giorni fa l’assoluzione da parte del Tribunale di Bari che, sulla base di tutti i dovuti riscontri e delle perizie tecniche, finalmente riconosce che: “Gli atti posti in essere erano inidonei a infettare la partner già all’epoca dei fatti”.

“Il nostro auspicio –spiega ancora Giupponi- è che questa sentenza faccia finalmente chiarezza su come sia opportuno trattare eventuali vicende che riguardino il sesso non protetto tra partner, più o meno occasionali e sull’importanza di adottare in merito un approccio completamente diverso”.

Nei giorni dell’arresto i media, nel dare conto dei fatti, hanno ripetuto con poche eccezioni le formule standard di tutte le narrazioni giornalistiche sugli “untori”: una donna “convinta” ad avere rapporti sessuali non protetti, un uomo con HIV (colpevole oltre ogni ragionevole dubbio già prima del processo) che “nasconde” la propria condizione, la “confessione” (termine adatto a un peccato) che scatena il dramma nella vittima.

Questa vicenda ci offre l’occasione di ricordare, ancora una volta, come tali narrazioni siano stigmatizzanti, fuorvianti, disinformative e di ostacolo alla prevenzione. Sono stigmatizzanti perché avere l’HIV è considerato, a priori, la spia di una moralità corrotta e di una personalità incline a fare del male; fanno un danno alla prevenzione perché non sottolineano il fatto che una donna sia pienamente legittimata a pretendere l’uso del profilattico da parte di un uomo di cui non conosce lo stato sierologico: “In sostanza – sostiene Giupponi – il messaggio che passa è: se il/la partner non mi dice di avere l’HIV, allora è normale non proteggersi; ricordiamo, invece, come gran parte delle infezioni, oggi, sia da attribuire a rapporti sessuali tra persone non consapevoli del proprio stato”.

Infine, si tratta di narrazioni fuorvianti rispetto a quanto previsto dalla legge, che non prescrive alcun obbligo per le persone con HIV di dichiarare il proprio stato. Condotte penalmente rilevanti possono, semmai, essere contestate solo nel caso in cui una persona consapevole di avere l’HIV e non in U=U, non metta in atto tutti i comportamenti necessari a proteggere il/la partner. Nei casi di utilizzo del condom, della PrEP o di soppressione virologica, non si può configurare reato alcuno. “L’HIV – conclude Giupponi – non è una colpa da confessare a nessuno, solo la persona può decidere se, come, quando e a chi rivelarlo, nel proprio esclusivo interesse. Interesse di tutti è, invece, quello di proteggere gli altri e se stessi, ricordando che la prevenzione riguarda tutti e tutte”.

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