Grano duro, meno semine in Puglia. Cia Agricoltori: “Crollo dei prezzi decisivo”
In Puglia e più in generale nel Mezzogiorno d’Italia, nel 2023 è diminuito il numero di aziende agricole che hanno deciso di seminare a grano duro i loro terreni. E’ quanto emerge dall’indagine ISTAT sulle intenzioni di semina pubblicata pochi giorni fa. Il dato, con un decremento del 3,2%, è ricavato da una ricerca su un campione di 15mila aziende. “Decrescono la superficie agricola coltivata e il prezzo del grano duro italiano, che nel giro di un anno è diminuito di un terzo; allo stesso tempo, aumentano i prezzi di tutti i prodotti trasformati della stessa filiera: dalla semola, al pane e alla pasta, come confermano le rilevazioni del Mise. Il primo e più importante anello della filiera è penalizzato, tutti i segmenti successivi raccolgono i profitti di una vera e propria esplosione dell’export: nel 2022, le esportazioni di pasta italiana sono cresciute del 5,1%, del 31% in termini di valore, per un totale di 3,7 miliardi. Qualcosa non torna. Allo stesso tavolo, alcuni commensali si riempiono la pancia, ad altri non vengono lasciate nemmeno le briciole”. Gennaro Sicolo, presidente CIA Puglia e vicepresidente nazionale CIA Agricoltori Italiani, snocciola dati ufficiali e usa una metafora eloquente per spiegare lo squilibrio che sta affossando la cerealicoltura pugliese e italiana. Per un chilo di grano duro, ai cerealicoltori pugliesi attualmente vengono corrisposti 39 centesimi.
PREZZI A CONFRONTO. La Facoltà di Agraria dell’Università di Bari, di recente, ha calcolato in 1.370 euro il costo complessivo sostenuto da un cerealicoltore pugliese per seminare, coltivare, curare e raccogliere il grano prodotto da un ettaro di terra. Il prezzo medio di un chilo di pasta realizzato con semola di grano duro, secondo un’indagine di Assoutenti, è di 1,95 euro, ma può arrivare fino a 4,7 euro; per un chilo di pane, il prezzo medio è di 4,7 euro ma a Ferrara arriva a 9,8 euro secondo le rilevazioni ufficiali del Ministero delle Imprese e del Made in Italy.
“Chi permette che a determinare il prezzo del grano italiano siano i grani esteri fa retrocedere il nostro frumento duro in serie B”, ha aggiunto Angelo Miano, presidente provinciale di CIA Capitanata, “perché ciò che viene importato massicciamente ha standard qualitativi, livelli di salubrità e costi di produzione inferiori a quelli che vincolano i cerealicoltori italiani”. Occorre valorizzare l’intera filiera 100% italiana del grano duro, garantendo un equo riconoscimento a produttori e trasformatori e assicurando la qualità e salubrità di grano, semola e pasta italiana ai consumatori. Per la produzione, in Italia, i cerealicoltori devono attenersi a un preciso e severo disciplinare che garantisce la migliore qualità e la massima salubrità del grano duro italiano. I diversi produttori esteri attivi sul mercato internazionale non hanno il medesimo disciplinare e le stesse regole vigenti in Italia.
COSA RISCHIA LA FILIERA. La Puglia è la prima produttrice italiana di grano duro, con una media che negli ultimi anni si è attestata attorno ai 9,5 milioni di quintali annui, il 30% dell’intera produzione nazionale. L’80% in provincia di Foggia, la parte restante trova dimora soprattutto nel Barese e nella BAT. “Il rischio è che, progressivamente, come sta già accadendo, diminuiscano le superfici coltivate e la produzione, lasciando sempre più spazio alla dipendenza dall’estero dell’intera filiera del made in Italy per i prodotti trasformati come pane e pasta”, ha spiegato Giuseppe De Noia, presidente di CIA Levante (Bari-Bat). “E’ un rischio che dovrebbe mettere tutti in allarme, perché stiamo parlando di qualità e salubrità, di benessere e salute per i consumatori”.