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La nota del Prefetto di Potenza nel Giorno del Ricordo

Saluto le Autorità presenti ed il Dirigente Scolastico Prof. Prospero Armentano del Liceo Walter Gropius, che ringrazio per l’invito ed a lui auguro di continuare a fare bene, come ha fatto qui a Potenza. Rivolgo un saluto caloroso a voi ragazze e ragazzi di questa splendida realtà scolastica. Oggi dedichiamo uno spazio di riflessione e di approfondimento nell’ambito delle celebrazioni per il Giorno del Ricordo. Un appuntamento al quale tengo molto, anche perché, come è stato ricordato, la tragedia delle foibe e dell’esodo degli istriani, dei giuliani, dei fiumani e dei dalmati italiani è stata per decenni dimenticata. Gli studenti della mia generazione non ebbero la possibilità di essere informati e di conoscere cosa fosse realmente successo.
Celebrare questo Giorno significa rivivere una grande tragedia italiana, vissuta allo snodo del passaggio tra la II guerra mondiale e l’inizio della guerra fredda. Un capitolo buio della storia nazionale e internazionale, che causò lutti, sofferenza e spargimento di sangue innocente.
Alla durissima occupazione nazi-fascista di quelle terre di confine, nelle quali un tempo convivevano popoli, culture, religioni diverse, seguì la violenza del regime titino, che scatenò su italiani inermi la rappresaglia per un tempo molto lungo: dall’autunno del 1943 alla primavera del 1945. Mentre, infatti, sul territorio italiano, in larga parte, si avviava la conclusione del conflitto, la fine dell’oppressione e il graduale ritorno alla libertà e alla democrazia, un destino di ulteriore sofferenza attendeva gli Italiani nelle zone occupate dalle truppe jugoslave. Un destino crudele per gli italiani dell’Istria, della Dalmazia, della Venezia Giulia, attestato dalla presenza, contemporanea, nello stesso territorio, di due simboli dell’orrore: la Risiera di San Sabba e le Foibe.
La zona al confine orientale dell’Italia, già martoriata dai durissimi combattimenti della Prima Guerra mondiale, assoggettata alla brutalità del fascismo contro le minoranze slave e alla feroce occupazione tedesca, divenne, su iniziativa dei comunisti jugoslavi, un nuovo teatro di violenze,
uccisioni, rappresaglie, vendette contro gli italiani, lì da sempre residenti. Non si trattò – come qualcuno insinua banalmente per sminuire la portata delle sofferenze e ingiustizie patite da moltissimi innocenti – di una ritorsione contro i torti del fascismo. Perché tra le vittime italiane di un odio, comunque intollerabile, che era insieme ideologico, etnico e sociale, vi furono molte persone che nulla avevano a che fare con i fascisti e le loro persecuzioni. Tanti innocenti, colpevoli solo di essere italiani e di essere visti come un ostacolo al disegno di conquista territoriale e di egemonia rivoluzionaria del comunismo titoista. Impiegati, militari, sacerdoti, donne, insegnanti, partigiani, antifascisti, persino militanti comunisti conclusero
tragicamente la loro esistenza nei durissimi campi di detenzione, uccisi in esecuzioni sommarie o addirittura gettati, vivi o morti, nelle profondità delle foibe. Il catalogo degli orrori del ‘900 si arricchiva così del termine, spaventoso, di “infoibato”.
Vorrei ricordare – tra le innumerevoli vittime innocenti sottoposte alla ferocia delle atroci e insensate vendette – la figura di Norma Cossetto, cittadina italiana, studentessa innamorata della sua terra – non a caso stava ultimando gli studi universitari con una tesi dedicata all’Istria Rossa,
riferimento alla bauxite di cui è ricca quella regione – figlia premurosa, sorella affettuosa: una ragazza con tanta voglia di vivere. Unica colpa: il padre Giuseppe era segretario politico del partito nazionale fascista .
Norma Cossetto è immagine fiera e autentica delle migliaia di vittime gettate nelle foibe, spesso ancora in vita, dopo ore e giorni di violenze e privazioni, che non possono trovare in nessuna ideologia e in nessuna scelta di campo giustificazione di sorta. A Norma Cossetto, in occasione della seconda celebrazione del Giorno del Ricordo, il Presidente Carlo Azeglio Ciampi conferì la medaglio d’oro al merito civile, con questa motivazione: “Giovane studentessa istriana, catturata e imprigionata dai partigiani slavi, veniva lungamente seviziata e violentata dai suoi carcerieri e poi barbaramente gettata in una foiba. Luminosa testimonianza di coraggio e di amor patrio”.
Subito dopo la guerra, nel 1949, il Consiglio della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Padova, su iniziativa, tra gli altri, del professor Concetto Marchesi, uno dei padri costituenti, le conferì la laurea ad honorem , una decisione che raccolse unanime consenso. Un consenso che
seppe quindi superare, già 76 anni fa, ogni possibile steccato, utilizzando un codice comune che appartiene a tutti noi e che riesce ad unire anche laddove le divisioni potrebbero prevalere: il codice della cultura. Ma la tragedia delle popolazioni italiane non si esaurì in quei barbari eccidi, concentratisi, con eccezionale virulenza nel periodo di fine conflitto. Dopo la fine della guerra, i territori a est di Trieste, che erano stati formalmente annessi al Reich tedesco, vennero direttamente occupati dai partigiani delle formazioni comuniste jugoslave.
Un destino comune a molti popoli dell’Est Europeo: quello di passare, direttamente, dalla oppressione nazista a quella comunista. E di sperimentare, sulla propria vita, tutto il repertorio disumanizzante dei grandi totalitarismi del Novecento, diversi nell’ideologia, ma così simili nei metodi di persecuzione, controllo, repressione, eliminazione dei dissidenti.
Molti italiani rimasero oltre la cortina di ferro. L’aggressività del nuovo regime comunista li costrinse, con il terrore e la persecuzione, ad abbandonare le proprie case, le proprie aziende, le proprie terre. Chi resisteva, chi si opponeva, chi non si integrava nel nuovo ordine totalitario​ spariva, inghiottito nel nulla. Essere italiano, difendere le proprie tradizioni, la propria cultura, la propria religione, la propria lingua era motivo di sospetto e di persecuzione. Cominciò il drammatico esodo verso l’Italia: uno stillicidio, durato un decennio.
Gli italiani che fuggirono intrapresero una vera e propria odissea, costretti a un lacerante viaggio verso luoghi dove furono trattati con sospetto e diffidenza. Per molti di loro questa diaspora ha significato povertà e privazioni. Paesi e città si spopolavano dalla secolare presenza italiana,
sparivano lingua, dialetti e cultura millenaria, venivano smantellate reti familiari, sociali ed economiche. Tanti sono stati gli esuli che nel dopoguerra hanno fatto onore al Paese in tanti settori strategici, ognuno dei quali ha portato con sé il ricordo e il sogno della terra natia. Non dimenticare diventa, quindi, un imperativo che supera i confini materiali e ci supporta nella costruzione di un Paese sempre più liberale e democratico, di un’Europa sempre più solidale e pacificata, di un mondo sempre più dialogante e multilaterale. La lunga scia di odio che ha insanguinato l’Europa ha avuto proprio nei Balcani l’ultimo ed inaccettabile epilogo; gli uomini hanno odiato, combattuto, vilipeso e ucciso i propri fratelli.
È necessario avere la consapevolezza che anche nel mondo di oggi ciascuno di noi può diventare improvvisamente minoranza: per il suo aspetto fisico, per le sue scelte sessuali, per la sua fede religiosa, per il suo stile di vita. Apparteniamo tutti in realtà ad una somma di minoranze o, meglio,
apparteniamo a maggioranze o minoranze fluide che possono improvvisamente cambiare di segno, a seconda del momento, delle condizioni sociali e culturali. Per dare concretezza alla nostra democrazia, occorre impegnarsi ogni giorno nella lotta contro il razzismo e contro ogni forma di discriminazione. Occorre costruire il concetto e il costume della convivenza tra diversi che si rispettano reciprocamente.
Oltre l’indifferenza, abbiamo il dovere di guardare al passato con interezza di sentimenti, a riconoscerci quotidianamente nella nostra identità repubblicana e democratica, a radicarci nei suoi valori fondanti. Care ragazze e cari ragazzi, se saremo capaci di farlo, anche questo Giorno del Ricordo non si ridurrà a mera commemorazione.
Michele Campanaro 

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